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Dpcm sbagliato: le imprese rivogliono il loro lavoro, non il ristoro di cittadinanza
A cura dell’Ufficio Stampa
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Protocolli adottati, contagi fuori dai laboratori, ma imprese fatte chiudere e il concetto stesso di ristoro come risarcimento alle serrande abbassate rischia di offendere la loro dignità. L’ultimo dpcm, al di là dei contenuti secondo Confartigianato assai discutibili, evidenzia l’assoluta confusione di coloro che dovrebbero guidare il nostro paese.
Non conforta il fatto che in tutto il mondo si sia in gran parte impreparati di fronte alla seconda ondata del virus e che le soluzioni adottate vengano copiate e rilanciate di paese in paese. I messaggi e i provvedimenti recepiti dalla popolazione in modo responsabile a marzo, oggi non sono in grado di creare una disposizione collettiva positiva verso restrizioni che appaiono incomprensibili.
Gli imprenditori non riescono a comprendere perché – pur avendo adottato i protocolli sanitari stabiliti dalle autorità e sostenuto i costi rilevanti ad essi correlati – oggi sono costretti a chiudere quando i contagi avvengono al di fuori dei loro laboratori. Viene così meno una delle condizioni del patto di aprile, dove a fronte di assunzione di responsabilità nell’applicazione dei protocolli e di investimenti delle imprese, lo Stato garantiva l’apertura delle attività. Al tempo stesso viene pericolosamente riaffermata un’idea lontana anni luce dalla cultura imprenditoriale, quella di una sorta di reddito di cittadinanza d’impresa: ti faccio chiudere, non lavori però ti do un ristoro.
Al di la del fatto che il ristoro non è determinato ancora nelle quantità e nelle modalità, chi fa impresa si assume il rischio di mettersi in gioco puntando sulle proprie capacità. Non c’è ristoro di sorta per gli investimenti fatti in reputazione, ricerca della qualità, definizione del proprio mercato, creazione di una squadra con i propri collaboratori e investimenti fatti per il futuro.
Questa è una logica che non appartiene al mondo delle imprese che chiede soltanto di poter lavorare con la massima attenzione per la salute propria dei familiari dei collaboratori e della clientela. C’è un fattore di dignità del lavoro che per Confartigianato viene prima di ogni cosa e che non può essere in alcun modo compensata. Se non ci comprende questo presupposto dirimente, e se ritornano in auge i teorici dei redditi a carico dello Stato e della decrescita felice, questo Paese, al di la dei fondi europei e del debito, non ha futuro. Questa volta è l’idea stessa di Paese ad essere in ballo. E per questo siamo ancora più preoccupati, rispetto agli infausti e auspichiamo temporanei provvedimenti adottati.
Stefano Bernacci, segretario Confartigianato cesenate
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Credits: Federico Lodesani